Ed eccoci tornare alla rubrica "Giocare con la storia". Stavolta pubblicheremo 3 articoli così suddivisi, relativi alla Prima Guerra Mondiale di cui quest'anno ricorre il 100° anniversario dell'entrate in guerra dell'Italia:
1) L'entrata in guerra dell'Italia, scritto da Ezio Melega
2) AAR del gioco Strafexpedition 1916, Scenario "Monte Cengio: la sconfitta dei Granatieri", scritto da me
3) La Strafexpedition e il punto di vista dell'Austria-Ungheria, scritto da Ezio Melega
Eccovi quindi al primo e corposo articolo. Visto il filo logico che segue, mi sembrava ingiusto suddividerlo in più parti e quindi, anche se particolarmente corposo e denso, ve lo propongo nella sua interezza.
Buona lettura.
26 Aprile 1915, Londra.
Il ministro degli esteri italiano
Sidney Sonnino firma un trattato segreto, senza informarne il Parlamento, con
Russia, Francia e Regno Unito, la Triplice Intesa, scendendo nella Prima Guerra
Mondiale al loro fianco, accettando di tradire le proprie alleanze con gli
Imperi Centrali e rompere la propria neutralità in cambio di annessioni
territoriali: Tirolo, Dalmazia, Friuli, Albania, persino alcune colonie in
Africa.
L'Italia predatrice
La firma del trattato dei Londra
darà il via alla disastrosa fase iniziale della Prima Guerra Mondiale italiana,
caratterizzata dall’ossessione del Generale Cadorna per l’assalto frontale e la
penetrazione territoriale a tutti i costi, che costerà all’Italia una serie di
sconfitte infinite sull’Isonzo, culminanti nella disfatta di Caporetto
(Ottobre-Novembre 1917). In questo contesto l’Italia e il suo esercito si
macchiarono di alcuni dei peggiori crimini della loro Storia, non tanto contro
il nemico, ma quanto i loro stessi cittadini-soldati, trattati come carne da
cannone, sacrificati ad ideali antiquati e in generale trattati dal loro stesso
stato maggiore come sacrificabili truppe coloniali.
La prima pagina de Il Corriere della Sera del 24 maggio 1915 |
Questo comportamento dell’Italia,
sia come politica estera sia nel trattamento dei suoi stessi cittadini non deve
stupire, in quanto entrambi parte di uno stesso processo, che caratterizza il
Regno d’Italia come un feroce predatore fin dalle sue origini nel Regno di
Sardegna e per tutta la sua esistenza fino alla dissoluzione nel corso della
Seconda Guerra Mondiale.
L’unità nazionale venne ottenuta
attraverso una vera e propria guerra di espansione territoriale del Regno di
Piemonte, intrapresa per risanare i disastrati conti pubblici di Casa Savoia, e
a tale scopo i territori meridionali vennero sottoposti ad un vero e proprio
colonialismo.
Terminato di sfruttare le risorse
dei nuovi territori, il Regno d’Italia proseguì nella sua politica di
aggressione, innestando un meccanismo di sfruttamento dei territori che non
poteva più fermare, e che lo avrebbe costretto ad avanzare costantemente, ad
aggredire senza sosta chiunque potesse sembrare più debole in modo da poter
sfruttare nuovi territori, in modo da non fermare il flusso di risorse che
impoveriva le conquiste ma arricchiva i conquistatori.
Eritrea, Somalia, Libia, ma anche
Dodecaneso e Tianjin, sono i nomi dell’espansione coloniale italiana, veloce e
brutale, che impegnerà lo Stato dagli anni ‘80 dell’ottocento fino alla Seconda
Guerra Mondiale, con la Prima Guerra Mondiale perfettamente inserita in queste
dinamiche.
Avendo ricevuto una battuta
d’arresto nella sua espansione africana con la Battaglia di Adua (1 marzo 1896), l’Italia doveva cercare altri canali per continuare la sua costante crescita
territoriale.
L’occasione arriverà con lo scoppio
della Prima Guerra Mondiale, in cui l’intervento italiano venne letteralmente
comprato dall’Intesa promettendo all’Italia nuovi territori a spese dei suoi
storici alleati Austria e Germania.
Le truppe italiane vengono sgominate dall'esercito del negus Menelik II |
La Fine della Neutralità
Spingere l’Italia alla guerra non fu
comunque facile. Il Governo la voleva fortemente, sperando di strappare dagli
storici o dai nuovi alleati un compenso molto alto per il proprio intervento,
ma il dissenso interno era fortissimo, almeno all’inizio. Quello della
neutralità era un partito maggioritario.
Anni di propaganda coloniale avevano
infatti convinto gli italiani a guardare al Mediterraneo e all’Africa come al
loro naturale bacino di espansione. Si erano convinti dell’azione
civilizzatrice e stabilizzatrice del colonialismo. Gli Italiani della Belle
Epoque (o, meglio, la borghesia italiana della Belle Epoque, i veri governatori
del Paese) si vedevano come portatori di civiltà sopra una barbarie primitiva,
pronti a riscattare sé stessi e i popoli conquistati dall’ingiusta povertà
(come delirava il Pascoli in occasione della campagna di Libia), e non volevano
avere nulla a che vedere con una guerra tra le grandi potenze del “mondo
civile”.
La gente comune, insomma, non voleva
avere nulla a che fare con la guerra tra le potenze europee. Non gli
interessava, non ne vedeva il senso, non era quello, il suo mondo.
Il partito interventista si attivò quasi immediatamente. Inizialmente minoritario, era anch’esso basato nella ricca borghesia cittadina, nuovi ricchi industriali e la piccola nobiltà che aveva saputo modernizzarsi. Giovani uomini di buona famiglia che, semplicemente, si annoiavano. Cresciuti col mito del Risorgimento, dell’uomo d’azione patriottica, questi giovani italiani non si adattavano bene alla pacifica routine della Belle Epoque, e decisero di rovinare con le loro stesse mani la prigione dorata che vedevano attorno a sé. Per anni prima della Guerra, mentre gli Stati europei galoppavano verso il conflitto, questi giovani abbracciarono i venti di guerra e iniziarono a scalpitare perché il proprio Paese si unisse alla folle corsa.
Il partito interventista si attivò quasi immediatamente. Inizialmente minoritario, era anch’esso basato nella ricca borghesia cittadina, nuovi ricchi industriali e la piccola nobiltà che aveva saputo modernizzarsi. Giovani uomini di buona famiglia che, semplicemente, si annoiavano. Cresciuti col mito del Risorgimento, dell’uomo d’azione patriottica, questi giovani italiani non si adattavano bene alla pacifica routine della Belle Epoque, e decisero di rovinare con le loro stesse mani la prigione dorata che vedevano attorno a sé. Per anni prima della Guerra, mentre gli Stati europei galoppavano verso il conflitto, questi giovani abbracciarono i venti di guerra e iniziarono a scalpitare perché il proprio Paese si unisse alla folle corsa.
Questi interventisti esaltavano la
modernità, l’azione, ed erano intrisi di una retorica di guerra eroica.
Trovarono il loro sbocco artistico nel Futurismo, che degli interventisti
divenne la culla, e tuonavano a favore dell’entrata in guerra così da
dimostrare all’Europa il valore della civiltà italiana, capace di fare ben
altro che di combattere contro selvaggi africani, o almeno così credevano.
Ma, ancora, non riuscivano a far
presa sull’opinione comune, nonostante fossero chiaramente apprezzati e
incoraggiati dall’ennesimo governo Giolitti.
Marinetti, leader dei futuristi, esaltò l'Assedio di Sebastopoli, uno degli antefatti della Prima Guerra Mondiale |
La chiave per i cuori degli italiani
si rivelò essere la questione delle “terre irredente”: il Friuli, la Dalmazia,
il Trentino, i territori di Monaco, tradizionalmente sentite dagli italiani
come parte del Paese (e, in effetti, territori di lingua e cultura fortemente
italiana) non erano stati riunificati, “redenti” dal dominio straniero. Gli
interventisti iniziarono a parlare di quelle questioni, le ingigantirono fino a
nascondere tutti gli altri interessi della guerra, e facendo leva su quei
sentimenti di patriottismo che il Regno d’Italia aveva saputo instillare nella
borghesia settentrionale fin dalle proprie origini.
Nel giro di un anno il partito degli
interventisti si trasformò da un atteggiamento minoritario e isolato in una
delle principali forze politiche del Paese, trasversale a schieramenti politici
e sociali.
Il governo poteva tranquillamente
proseguire negli accordi più o meno segreti per vendere il proprio intervento a
chi avrebbe garantito il pagamento più ricco.
Il trattato di Londra fu la firma di
questo vero e proprio patto commerciale: sostenendo su basi piuttosto labili
che la sua alleanza con gli Imperi Centrali fosse nulla in quanto conteneva
clausole che la limitavano alla guerra difensiva, attivate con l’invasione
Austroungarica della Serbia l’Italia scendeva in guerra al fianco di quelli
che fino a poco prima erano i suoi teorici avversari.
In cambio all’Italia vennero promesse una
serie notevole di territori: Tirolo e Trentino, Trieste, Fiume, la Dalmazia
settentrionale comprese le isole, tutta la Carnia, parte della Carinzia, il
Dodecaneso, Albania, parti della Turchia e diverse colonie tedesche in Asia e
Africa.
È facile notare come la questione delle “terre irredente” fosse solo una comoda scusa di propaganda, e che la maggior parte dei territori sarebbe stata una vera e propria espansione in territori che poco centravano con le pretese di unità nazionale.
È facile notare come la questione delle “terre irredente” fosse solo una comoda scusa di propaganda, e che la maggior parte dei territori sarebbe stata una vera e propria espansione in territori che poco centravano con le pretese di unità nazionale.
Una mossa illuminante sulle illusioni che
il Governo Salandra (succeduto a Giolitti nel frattempo) si facesse sulle
possibilità diplomatiche dell’Italia fu quella di dichiarare guerra solo
all’Austria-Ungheria, e non alla Germania, cercando inspiegabilmente di mantenere
rapporti amichevoli con quest’ultima, contando sul fatto che la guerra sarebbe
durata ben poco, al massimo qualche mese ancora.
Fanti italiani all'alba della guerra |
In tutto questo il Governo italiano si
comportò con una doppiezza esemplare, manipolando i propri sudditi, agendo ben
al di là delle proprie prerogative e trovandosi di fatto alleato, per alcune
settimane dopo Londra, con entrambi
gli schieramenti, non essendo gli Imperi Centrali a conoscenza di tale patto, i
cui dettagli sarebbero stati resi pubblici solo nel 1917 dal governo bolscevico
salito al potere in Russia.
Era l’apice del gioco di prestigio di
alleanze e favori con cui l’Italia post-unitaria cercava di ritagliarsi il
proprio posto nel mondo, e il freddo calcolo, la totale mancanza di rispetto
che lo Stato in quest’occasione dimostrò nei confronti dei propri cittadini,
gettandoli al massacro in una guerra culturalmente difficile da accettare,
segnò il carattere nazionale per sempre.
Una nazione impreparata
Data tutta la fatica che l’Italia aveva
fatto per entrare nella Prima Guerra Mondiale, sarebbe stato auspicabile che il
Regio Esercito fosse preparato e ben equipaggiato per l’occasione.
Come e noto non fu così.
Gli Stati europei in generale entrarono nella Prima Guerra Mondiale con una mentalità squisitamente ottocentesca, ancora intrisa di quei valori ereditati dalle guerre napoleoniche di cent’anni prima. Sia gli Imperi che l’Intesa avevano fortemente spinto verso la guerra, aggrappandosi al risibile casus belli dell’attentato di Sarajevo e la successiva invasione della Serbia da parte dell’Austria-Ungeria. L’intero carnaio della Prima Guerra Mondiale fu causato, formalmente, dal fatto che una delle maggiori potenze mondiali dell’epoca invase un regno giovane, semisconosciuto e arretrato schiacciato tra i Balcani e la Grecia, mentre Inghilterra, Russia e Francia accorsero a difenderlo sulla base dei più tenui interessi.
Come e noto non fu così.
Gli Stati europei in generale entrarono nella Prima Guerra Mondiale con una mentalità squisitamente ottocentesca, ancora intrisa di quei valori ereditati dalle guerre napoleoniche di cent’anni prima. Sia gli Imperi che l’Intesa avevano fortemente spinto verso la guerra, aggrappandosi al risibile casus belli dell’attentato di Sarajevo e la successiva invasione della Serbia da parte dell’Austria-Ungeria. L’intero carnaio della Prima Guerra Mondiale fu causato, formalmente, dal fatto che una delle maggiori potenze mondiali dell’epoca invase un regno giovane, semisconosciuto e arretrato schiacciato tra i Balcani e la Grecia, mentre Inghilterra, Russia e Francia accorsero a difenderlo sulla base dei più tenui interessi.
Tutti i partecipanti credevano in una
guerra breve, di un paio d’anni al massimo, che avesse lo scopo di “svecchiare”
i confini europei, ridefinendo rapporti di potere che erano praticamente
statici sin dal Congresso di Vienna. La borghesia europea, anestetizzata dai
cent’anni che l’avevano vista essere la padrona incontrastata dei destini mondiali,
voleva sgranchirsi un po’ le gambe, rimettere in moto il sonnacchioso gioco
della politica ottocentesca.
Fu in questo clima che che l’Italia accorse in soccorso dei probabili vincitori, dell’Intesa, cercando di rosicchiare un po’ di nuovi territori da questo rimescolamento di carte politiche.
Fu in questo clima che che l’Italia accorse in soccorso dei probabili vincitori, dell’Intesa, cercando di rosicchiare un po’ di nuovi territori da questo rimescolamento di carte politiche.
La borghesia europea si sbagliava di
grosso, e si trovò coinvolta in un massacro senza precedenti.
In particolare l’Italia era assolutamente
impreparata alla sua stessa strategia.
Quarant’anni di sostanziale pace ininterrotta e solo qualche avventura coloniale, avevano reso la carriera militare totalmente superflua agli occhi della classe dominante, una sinecura in cui scaricare i figli incompetenti. Le promozioni nel Regio Esercito venivano elargite tramite connessioni familiari, favoritismi e vecchi titoli nobiliari, più che per merito; la carriera militare veniva considerata adatta solo a chi non aveva proprio altre capacità, e i ranghi degli ufficiali e dei sottufficiali erano intasati dal peggio che la borghesia italiana aveva da offrire.
Quarant’anni di sostanziale pace ininterrotta e solo qualche avventura coloniale, avevano reso la carriera militare totalmente superflua agli occhi della classe dominante, una sinecura in cui scaricare i figli incompetenti. Le promozioni nel Regio Esercito venivano elargite tramite connessioni familiari, favoritismi e vecchi titoli nobiliari, più che per merito; la carriera militare veniva considerata adatta solo a chi non aveva proprio altre capacità, e i ranghi degli ufficiali e dei sottufficiali erano intasati dal peggio che la borghesia italiana aveva da offrire.
Alla guida dell’esercito si trovava il
generale Luigi Cadorna, figlio d'arte del Risorgimento e del comandante delle forze che
presero Roma nel 1870. A dire il vero Cadorna, militare della “vecchia scuola”, fu sempre piuttosto critico nei confronti delle gerarchie militari formate in
tempo di pace, ma questo non gli impediva di essere comunque inadatto allo
scopo cui era chiamato, congelato in una mentalità assolutamente antiquata..
La strategia di Cadorna verteva su un lento
ma costante avanzamento sul fronte dell’Isonzo, sfruttando il graduale crinale
come sentiero per incunearsi in territorio austriaco, lasciando solo una
nominale guarnigione sul confine trentino, confidando nell’asprezza delle
montagne di quella zona. Questa tattica, per funzionare, si appoggiava sul
notevole vantaggio numerico italiano, cui l’Austria-Ungheria, impegnata già su
altri due fronti, non poteva rispondere.
Una tattica vecchia di cent’anni, napoleonica, che ignorava completamente il supporto dell’artiglieria e si basava sullo spingere costantemente in avanti i propri soldati, anche a costo di grandi perdite. Inevitabilmente il morale crollava, e lo Stato Maggiore tentò di risolvere il problema instaurando un clima di terrore tra le truppe, a suon di punizioni draconiche che arrivavano fino all’esecuzione sommaria dei “vigliacchi”.
Una tattica vecchia di cent’anni, napoleonica, che ignorava completamente il supporto dell’artiglieria e si basava sullo spingere costantemente in avanti i propri soldati, anche a costo di grandi perdite. Inevitabilmente il morale crollava, e lo Stato Maggiore tentò di risolvere il problema instaurando un clima di terrore tra le truppe, a suon di punizioni draconiche che arrivavano fino all’esecuzione sommaria dei “vigliacchi”.
Il fronte italiano, tra il 1915 e il 1917 |
Questo atteggiamento praticamente omicida
era condiviso da gran parte degli stati maggiori dell’epoca (con eccezione,
forse, di quello tedesco, il primo a intuire i nuovi usi possibili
dell’artiglieria e a sviluppare strategie adatte alle nuove tecnologie
industriali), ed era un’espressione delle condizioni sociali in cui versava
l’Europa.
Il dominio della borghesia sull’Ottocento era incontrastato, e in Italia in
particolare le tensioni sociali erano esacerbate dagli atteggiamenti coloniali
nei confronti del meridione che ancora perduravano e che avevano macchiato la
mentalità della borghesia italiana, rendendola capace di applicare una logica
coloniale al proprio stesso Paese.
I ranghi degli ufficiali e dei sottufficiali erano universalmente riempiti da
borghesi e da quei nobili che avevano saputo riciclarsi e allearsi alla
borghesia, mentre la truppa era composta dal “popolo”, proletariato urbano
industriale e la gran massa dei contadini. Era praticamente impossibile per un
soldato farsi strada tra i ranghi, e la gerarchia militare andava a ricalcare
quella civile.
Non credo neppure sia possibile ignorare, in questa luce, che il più grave episodio di decimazione avvenne ai danni della Brigata Catanzaro, composta per lo più da soldati calabresi. Se la mentalità “coloniale” era pervasiva, di sicuro a subirla maggiormente erano proprio i soldati meridionali.
Non credo neppure sia possibile ignorare, in questa luce, che il più grave episodio di decimazione avvenne ai danni della Brigata Catanzaro, composta per lo più da soldati calabresi. Se la mentalità “coloniale” era pervasiva, di sicuro a subirla maggiormente erano proprio i soldati meridionali.
I soldati di truppa erano soggetti alla
leva obbligatoria, reclutati a forza con una coscrizione che in alcuni paesi
arrivava al limite del rapimento. Ricevevano scarso addestramento e
insufficiente equipaggiamento e venivano inviati rapidamente al fronte, dove si
trovavano in una situazione che doveva avere del surreale.
Non si era ancora arrivati alla guerra di
trincea, il fronte era ancora mobile e gli scontri col nemico frequenti, almeno
nelle prime settimane di guerra. Il tempo per conoscersi era poco, l’attacco
era continuo, e questo causava squilibri tipi della situazione italiana.
L’Italia era stata unita politicamente quarant’anni prima, dai genitori e dai nonni dei soldati del 1915 ma, data la natura coloniale delle fasi finali del Risorgimento, l’unificazione culturale non era mai avvenuta. Un contadino-soldato nativo di Udine, allora praticamente sul confine con l’Austria-Ungheria, e un commilitone proveniente da Napoli non avevano nulla in comune: non parlavano la stessa lingua, non erano abituati allo stesso cibo, allo stesso clima, ad indossare gli stessi vestiti. Non pregavano e non si rapportavano all’autorità nello stesso modo.
Se la borghesia post-unitaria aveva potuto omogenizzarsi meglio in virtù del suo tipico internazionalismo ottocentesco, e le differenze tra borghesi (e quindi ufficiali) di Torino, Firenze o Roma non erano così evidenti (e venivano ulteriormente appianate dalle accademie militari per chi intraprendeva la carriera), la truppa che si riversò sull’Isonzo nel Maggio 1915 era disparata e quantomai disunita culturalmente.
Ad aggravare la situazione vi era la natura ugualmente multiculturale, ma ben diversa, dell’Impero Austro-Ungarico, che comprendeva anche gli italiani del Friuli e della Dalmazia, e verso cui le popolazioni del confine veneto provavano sì un atavico risentimento fin dal tradimento napoleonico, ma a cui erano anche culturalmente affini.
Di sicuro il soldato di Udine avrebbe avuto modo di empatizzare e legare maggiormente con un “collega” triestino, che però si sarebbe trovato a combattere per l’Austria-Ungheria.
L’Italia era stata unita politicamente quarant’anni prima, dai genitori e dai nonni dei soldati del 1915 ma, data la natura coloniale delle fasi finali del Risorgimento, l’unificazione culturale non era mai avvenuta. Un contadino-soldato nativo di Udine, allora praticamente sul confine con l’Austria-Ungheria, e un commilitone proveniente da Napoli non avevano nulla in comune: non parlavano la stessa lingua, non erano abituati allo stesso cibo, allo stesso clima, ad indossare gli stessi vestiti. Non pregavano e non si rapportavano all’autorità nello stesso modo.
Se la borghesia post-unitaria aveva potuto omogenizzarsi meglio in virtù del suo tipico internazionalismo ottocentesco, e le differenze tra borghesi (e quindi ufficiali) di Torino, Firenze o Roma non erano così evidenti (e venivano ulteriormente appianate dalle accademie militari per chi intraprendeva la carriera), la truppa che si riversò sull’Isonzo nel Maggio 1915 era disparata e quantomai disunita culturalmente.
Ad aggravare la situazione vi era la natura ugualmente multiculturale, ma ben diversa, dell’Impero Austro-Ungarico, che comprendeva anche gli italiani del Friuli e della Dalmazia, e verso cui le popolazioni del confine veneto provavano sì un atavico risentimento fin dal tradimento napoleonico, ma a cui erano anche culturalmente affini.
Di sicuro il soldato di Udine avrebbe avuto modo di empatizzare e legare maggiormente con un “collega” triestino, che però si sarebbe trovato a combattere per l’Austria-Ungheria.
I fanti della Brigata Catanzaro in una delle basse e affrettate trincee dell'Isonzo |
L’Italia si era alleata agli Imperi
Centrali perché i loro territori, la loro Storia e le loro culture si
sovrapponevano, nonostante le guerre di indipendenza e persino nonostante il
rancore ancora sentito per il trattato di Campoformio.
Il tradimento di Londra distrusse per sempre questo legame, e soldati che fino
a poco prima si consideravano alleati e che erano uniti da vincoli culturali
estremamente tenaci si trovarono a spararsi addosso, forzati dall’oggi al
domani a creare nuovi vincoli con quelli che ai loro occhi dovevano apparire
come molto più “stranieri” dei propri avversari, nonostante la comune etichetta
di “italiani” contro “austriaci”.
Il contatto col nemico
In questo stato di confusione culturale e
impreparazione strategica, la dottrina Cadorna prevedeva l’avanzamento sul
fronte dell’Isonzo con l’obiettivo di conquistare e occupare le città
austriache. Una visione strategica molto ottocentesca, concepibile solo
pensando alla dottrina di cent’anni prima, ma non in disaccordo con il pensiero
internazionale e assolutamente adeguata alla natura predatoria dello Stato
italiano.
Eravamo entrati nella Prima Guerra Mondiale
per strappare territori all'Austria, e il modo migliore per farlo era quello:
avanzare, avanzare, avanzare...
Il 23 Giugno 1915 l’Italia apre il fronte
friulano e inizia la prima battaglia dell’Isonzo, che durerà fino al 7 Luglio e
si concluderà con la sostanziale disfatta della dottrina Cadorna alla prima
operazione in cui venne applicata.
Le fortificazioni sul Carso si rivelarono
imprendibili, e la superiorità tecnologica austriaca si fece immediatamente
sentire: Cadorna contava sul vantaggio numerico, in effetti presente, ma non
aveva tenuto conto della superiore linea ferroviaria austriaca, che consentì
all’Impero di mobilitare verso il fronte in maniera estremamente più
efficiente. La dottrina dell’avanzamento e della guerra di movimento si rivelò
del tutto inadatta a superare le formidabili fortificazioni austriache. La
superiorità tecnologica dell’avversario era così evidente che presso la truppa
iniziarono prestissimo a serpeggiare voci paranoiche su intricati campi minati,
strade trasformate in trappole mortali, nuove armi a disposizione del nemico,
storie per metà basate sui fatti e per metà ingigantite dall’immaginazione
terrorizzata.
La battaglia durò due settimane, e anche se
fu sostanzialmente inutile sul piano tattico, su quello strategico fu un
disastro per l’Italia. Nessuno dei due schieramenti aveva ottenuto grandi
conquiste territoriali, ma l’attacco italiano era stato respinto, e la guerra
di movimento voluta da Cadorna stava già degenerando in una logorante guerra di
trincea per cui l’Italia era assolutamente impreparata.
Lo stesso scenario si ripeterà quasi identico per un anno, e il fronte isontino costerà migliaia di vite italiane (da ambo gli schieramenti) in una serie di attacchi continuamente respinti dagli austriaci, che si guardavano bene dall’avanzare al di là delle posizioni iniziali.
Lo stesso scenario si ripeterà quasi identico per un anno, e il fronte isontino costerà migliaia di vite italiane (da ambo gli schieramenti) in una serie di attacchi continuamente respinti dagli austriaci, che si guardavano bene dall’avanzare al di là delle posizioni iniziali.
Il morale già basso in partenza degli
italiani crollò definitivamente, e qui il Regio Esercito (e lo Stato italiano
di cui era emanazione) mostrarono il loro vero volto.
Incapaci di creare una coesione culturale e spirituale fra la truppa, ricorsero a metodi di coercizione praticamente medievali.
Fucilazioni, esecuzioni sommarie per vera o presunta codardia, decimazioni di intere compagnie colpevoli di non aver voluto stupidamente assaltare posizioni fortificate, punizioni corporali, erano all'ordine del giorno. Il cadere vittima di depressione, sindrome da stress post-traumatico e simili nevrosi (e come era possibile fare altrimenti in quel carnaio?) era una condanna a morte: la “follia” era considerata insubordinazione, e punita con la fucilazione. Soldati che si rifiutavano di avanzare sui corpi dei propri compagni che bloccavano i reticolati venivano sommariamente uccisi dai propri ufficiali, ufficiali di truppa che si rifiutavano di dare l’ordine di un attacco suicida ricevevano lo stesso trattamento. L’obiettivo dello Stato Maggiore era far sì che i soldati del Regio Esercito avessero molta più paura dei loro stessi ufficiali che dell’avanzare verso le mitragliatrici e i reticolati austroungarici.
Divenne pratica diffusa il ferirsi e mutilarsi di proposito pur di essere spediti nelle retrovie e sfuggire alle battaglie e alla vita di trincea.
Alcuni provarono a farsi catturare dagli austriaci, ma il soldato che osava farsi prendere vivo invece che sacrificare la vita per la Patria veniva trattato come un traditore, abbandonato dallo Stato e la sua famiglia a casa ostracizzata, quindi l’automutilazione rimaneva una soluzione migliore.
Incapaci di creare una coesione culturale e spirituale fra la truppa, ricorsero a metodi di coercizione praticamente medievali.
Fucilazioni, esecuzioni sommarie per vera o presunta codardia, decimazioni di intere compagnie colpevoli di non aver voluto stupidamente assaltare posizioni fortificate, punizioni corporali, erano all'ordine del giorno. Il cadere vittima di depressione, sindrome da stress post-traumatico e simili nevrosi (e come era possibile fare altrimenti in quel carnaio?) era una condanna a morte: la “follia” era considerata insubordinazione, e punita con la fucilazione. Soldati che si rifiutavano di avanzare sui corpi dei propri compagni che bloccavano i reticolati venivano sommariamente uccisi dai propri ufficiali, ufficiali di truppa che si rifiutavano di dare l’ordine di un attacco suicida ricevevano lo stesso trattamento. L’obiettivo dello Stato Maggiore era far sì che i soldati del Regio Esercito avessero molta più paura dei loro stessi ufficiali che dell’avanzare verso le mitragliatrici e i reticolati austroungarici.
Divenne pratica diffusa il ferirsi e mutilarsi di proposito pur di essere spediti nelle retrovie e sfuggire alle battaglie e alla vita di trincea.
Alcuni provarono a farsi catturare dagli austriaci, ma il soldato che osava farsi prendere vivo invece che sacrificare la vita per la Patria veniva trattato come un traditore, abbandonato dallo Stato e la sua famiglia a casa ostracizzata, quindi l’automutilazione rimaneva una soluzione migliore.
Un soldato (austriaco) morto tra i reticolari. In assenza di altro i cadaveri venivano usati come passerelle. |
Spediti all’assalto senza ritegno,
mischiati con pochi riguardi per le proprie identità culturali, sottoposti a
metodi di disciplina draconici.
C’è un precedente per questo trattamento della truppa: gli eserciti coloniali.
Per incitare e disciplinare i soldati italiani lo Stato Maggiore usò gli stessi metodi imparati in Libia ed Eritrea per reclutare e indirizzare i nativi, e non fu un caso.
La guerra, come sempre, agì da catalizzatore per i conflitti sociali del Paese, e li rese evidenti.
L’Italia era disunita, e guidata da una classe borghese non dissimile in mentalità dalla nobiltà dell’anciente regime, che considerava il resto della popolazione come una risorsa da sfruttare per ottenere un miglioramento della propria condizione, esattamente allo stesso modo in cui considerava i frutti dell’avventura coloniale.
Per incitare e disciplinare i soldati italiani lo Stato Maggiore usò gli stessi metodi imparati in Libia ed Eritrea per reclutare e indirizzare i nativi, e non fu un caso.
La guerra, come sempre, agì da catalizzatore per i conflitti sociali del Paese, e li rese evidenti.
L’Italia era disunita, e guidata da una classe borghese non dissimile in mentalità dalla nobiltà dell’anciente regime, che considerava il resto della popolazione come una risorsa da sfruttare per ottenere un miglioramento della propria condizione, esattamente allo stesso modo in cui considerava i frutti dell’avventura coloniale.
Lo Stato Italiano era un rapace, un
predatore basato sulla conquista e sullo sfruttamento, e questa rapacità
iniziava all’interno dei suoi stessi confini, in piena continuità con gli
effetti dell’unificazione e in piena linea con la politica di rapacità del
Regno di Sardegna, vero seme del Regno d’Italia.
La Prima Guerra Mondiale fu uno straordinario esempio di questa politica: l’Italia, il suo Governo, che si affretta a salire sul carro del vincitore come sua abitudine, vendendosi a potenze vecchie e nuove pur di afferrare qualche lembo di terra, pronta a gettare i suoi uomini nel carnaio europeo dopo che i suoi sogni in Africa erano stati arrestati ad Adua, pronta a sacrificare migliaia di vite e a ripiombare in logiche medievali pur di ottenere altri vent’anni di colonialismo, territori in cui dislocare un’altra generazione.
La Prima Guerra Mondiale fu uno straordinario esempio di questa politica: l’Italia, il suo Governo, che si affretta a salire sul carro del vincitore come sua abitudine, vendendosi a potenze vecchie e nuove pur di afferrare qualche lembo di terra, pronta a gettare i suoi uomini nel carnaio europeo dopo che i suoi sogni in Africa erano stati arrestati ad Adua, pronta a sacrificare migliaia di vite e a ripiombare in logiche medievali pur di ottenere altri vent’anni di colonialismo, territori in cui dislocare un’altra generazione.
Non si può dire che la Grande Guerra fu un
successo, ma l’Italia fu comunque tra i vincitori, e ottenne parte di quello
che gli era stato promesso a Londra.
Alcune conquiste gli furono però negate e questo portò a creare il mito della “vittoria mutilata”. Un mito piuttosto irragionevole, dato che gli accordi di Londra erano al limite della legalità, che il ruolo avuto dall’Italia fu molto minore di quanto ci si aspettasse e, basilarmente, finì per limitarsi ad essere l’esca di una trappola volta a distrarre truppe austriache altrimenti impiegabili.
L’Italia poteva essere considerata vincitrice solo perché parte della coalizione trionfante, ma non per particolari meriti propri.
Questo mito venne alimentato dal fascismo, che lo utilizzò per iniziare un nuovo ciclo di conquista coloniale, per alimentare nuovamente l’indole predatoria del Regno d’Italia: servono la Seconda Guerra Mondiale, la dittatura e il crollo della monarchia per porre per sempre fine a questa fase e a indirizzare l’Italia su nuovi binari.
Alcune conquiste gli furono però negate e questo portò a creare il mito della “vittoria mutilata”. Un mito piuttosto irragionevole, dato che gli accordi di Londra erano al limite della legalità, che il ruolo avuto dall’Italia fu molto minore di quanto ci si aspettasse e, basilarmente, finì per limitarsi ad essere l’esca di una trappola volta a distrarre truppe austriache altrimenti impiegabili.
L’Italia poteva essere considerata vincitrice solo perché parte della coalizione trionfante, ma non per particolari meriti propri.
Questo mito venne alimentato dal fascismo, che lo utilizzò per iniziare un nuovo ciclo di conquista coloniale, per alimentare nuovamente l’indole predatoria del Regno d’Italia: servono la Seconda Guerra Mondiale, la dittatura e il crollo della monarchia per porre per sempre fine a questa fase e a indirizzare l’Italia su nuovi binari.
Ma Mussolini era, all’epoca dell’Isonzo, un
caporale maggiore dei bersaglieri, impegnato nella vita di trincea, e quella
quarta e ultima fase del colonialismo italiano era di là da venire.
Per ora l’esercito Italiano continuava a tentare inutilmente di spingere verso nord-est, conquistando pochi metri alla volta, e venendo costantemente arrestato dagli austriaci. L’assenza del concetto, tedeschissimo, di blitzkrieg bloccava il conflitto in un susseguirsi strutturato di scontri dispendiosi e inutili.
Lo stallo si ruppe quando l’Austria-Ungheria sorprese l’Italia e, nell’estate del 1916, attaccò dove Cadorna si sentiva più sicuro: in Tirolo.
Era iniziata la Guerra Bianca, che avrebbe definitivamente fatto piombare l’Italia nella psicosi dell’invasione austriaca e avrebbe spianato la strada, l’anno dopo, alla manovra a tenaglia di Caporetto.
Per ora l’esercito Italiano continuava a tentare inutilmente di spingere verso nord-est, conquistando pochi metri alla volta, e venendo costantemente arrestato dagli austriaci. L’assenza del concetto, tedeschissimo, di blitzkrieg bloccava il conflitto in un susseguirsi strutturato di scontri dispendiosi e inutili.
Lo stallo si ruppe quando l’Austria-Ungheria sorprese l’Italia e, nell’estate del 1916, attaccò dove Cadorna si sentiva più sicuro: in Tirolo.
Era iniziata la Guerra Bianca, che avrebbe definitivamente fatto piombare l’Italia nella psicosi dell’invasione austriaca e avrebbe spianato la strada, l’anno dopo, alla manovra a tenaglia di Caporetto.
La Guerra Bianca: una trincea scavata nella neve dell'Adamello |
In area tedesca l’assalto in Tirolo è conosciuto come Frühjahrsoffensive, l’Offensiva di
Primavera, ma gli italiani dell’epoca la chiamarono Strafexpedition, la Spedizione Punitiva, il modo in cui il gigante
austriaco si voltava rimettendo al suo posto l’arrogante imperialismo italiano.
Bibliografia essenziale
● Martin Gilbert, La grande storia
della prima guerra mondiale; Milano : Mondadori, 2010
● Alberto Rosselli, L'ultima colonia; Gianni Iuculano
Editore, 2005
●
Mario Silvestri, Isonzo
1917; Milano : BUR, 2007
● Mark Thompson, La guerra bianca; Milano : il
Saggiatore, 2012
● H. P. Willmott, La prima guerra mondiale; Milano :
Mondadori, 2006
● Angelo Gatti, Caporetto; Bologna : Il Mulino, 2007
● Enrico Acerbi, Strafexpedition; Valdagno : Gino Rossato
Editore, 2007
● Giovanni Cecini, Il Corpo di Spedizione italiano in Anatolia
(1919-1922); Roma : Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito, 2010
● Angelo Del Boca, Italiani in Africa Orientale: La conquista
dell'Impero; Bari ; Laterza, 1985
● Angelo Del Boca, Italiani in Africa Orientale: La caduta
dell'Impero; Bari : Laterza, 1986
● Claudio Gattera, Il Pasubio e la strada delle 52 gallerie;
Valdagno : Gino Rossato Editore, 2007
Ludografia
●
Andrea Brusati, Strafexpedition 1916;
Europa Simulazioni, 2011
● David Schroeder, The Italian Front: 1915-1918; SPW, 2003
● (non accreditato), Isonzo; Clem Toys, 1982
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